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  • Lunedì 15 giugno la redazione di Facta ha ricevuto una segnalazione via WhatsApp che chiedeva di verificare le informazioni contenute in un post, circolato su Facebook e Twitter, secondo cui l’operatore umanitario canadese Peter Dalglish, «arrestato nel 2018 per pedofilia in Nepal in compagnia di 2 bimbi di 12 e 14 anni» sarebbe «fondatore dell’Unicef e funzionario dell’Organizzazione mondiale della sanità». Il post oggetto di verifica si apre con la frase «A chi siamo in mano… e ci costringono mettere le maschere», collegando così l’informazione sul presunto ruolo di Dalglish nell’Oms alle indicazioni circa l’utilizzo di mascherine chirurgiche come strumento di protezione dal virus Sars-Cov-2. La condanna di Dalglish è vera, ma i suoi collegamenti con l’Oms (e l’Unicef) sono invece falsi. La fama di Peter Dalglish nell’ambiente della cooperazione internazionale è dovuta principalmente alla creazione di Street Kids, un’organizzazione non governativa nata per fornire assistenza ai bambini poveri e senza fissa dimora, che dal 2015 è confluita in Save the Children. Tale impegno filantropico nel 2016 è valso a Dalglish l’onorificenza dell’Ordine del Canada, il secondo più alto riconoscimento civile canadese. Dalglish, tuttavia, non è il «fondatore dell’Unicef», che è invece un’agenzia istituita nel 1946 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, e nemmeno «un funzionario dell’Oms», come indicato nel post. Tra gli incarichi istituzionali di Dalglish, si segnalano numerose missioni in qualità di rappresentante Onu, tra le quali una come capo missione del progetto Onu per gli insediamenti umani in Afghanistan, un programma delle Nazioni Unite finalizzato a ridurre il numero di persone che vivono nelle baraccopoli. Né il sito dell’Oms, né i media internazionali menzionano un suo ruolo nell’Organizzazione mondiale della sanità. La vicenda giuridica di Peter Dalglish è effettivamente iniziata ad aprile 2018, con l’arresto in Nepal dell’operatore umanitario canadese e l’accusa di violenza sessuale su due minori, rispettivamente di 12 e 14 anni. La sentenza di primo grado è arrivata nel luglio del 2019, con una condanna a nove anni di carcere.
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